IL NIAGARA DEL NOSTRO PRESENTE  –  by Roberto Mutti

Silente pur essendo capace di evocare suoni e rumori, statica ma in grado di riprodurre il movimento, fin dai suoi albori la fotografia ha colpito l’immaginazione di tutti – perfino dei suoi detrattori, un tempo molto numerosi – perché sapeva usare un’arma efficace come la meraviglia. In un primo tempo questa era riservata, come è facile immaginare, al procedimento stesso nuovo e immaginifico ma ben presto l’attenzione si spostò sui risultati che autori sempre più bravi sapevano ottenere. Se il ritratto continuava a rimanere in quell’ambito privato che già aveva caratterizzato quello pittorico perché frutto di una committenza che legava il fotografo alla persona da lui messa in posa, ben diverso era l’esito della fotografia di paesaggio urbano e naturale. Questa intendeva rivolgersi a un pubblico più ampio che comprendeva sia quanti conoscevano i luoghi ripresi sia coloro che solo attraverso l’immagine fotografica arrivavano per la prima volta a vederli. La straordinaria nitidezza e precisione dei dagherrotipi trasmetteva un sapore di autenticità mentre i lunghi tempi di posa necessari per la corretta esposizione trasferivano all’immagine un che di indeterminato. Gli esempi da citare sarebbero molti ma a noi ne viene in mente uno particolarmente intrigante perché realizzato in uno di quei luoghi dove l’uomo rimane incantato a osservare la bellezza sublime della natura. Si tratta di un dagherrotipo scattato nel 1853 da Platt D. Babbitt che proprio quell’anno aveva ricevuto la concessione in esclusiva di fotografare le cascate del Niagara dalla sponda statunitense. L’immagine riprende una visione d’assieme per nulla convenzionale: l’autore sceglie di lasciare alle cascate una porzione di spazio centrale dando visibilità anche al cielo, alla vegetazione, alla riva in primo piano su cui sostano un uomo e quattro donne che danno le spalle alla macchina fotografica e sono palesemente incantati di fronte a quello spettacolo. Noi sappiamo che Babbitt si era specializzato proprio in questo tipo di ripresa: aspettava che i turisti si mettessero in posa, scattava senza che se ne accorgessero per poi proporre loro le immagini che immancabilmente venivano acquistate. Qui non ci interessa l’aspetto commerciale quanto quello della composizione: proprio questa metodologia di lavoro aveva spinto il fotografo a studiare una ripresa particolarmente attenta al rapporto fra la grandiosità della natura e le piccole dimensioni degli uomini che pure assumono nel contesto generale della ripresa un ruolo molto importante. Tutti i protagonisti di questa scena sembrano possedere la precisa consapevolezza di essere uomini del loro tempo, orgogliosi dei progressi della scienza e della tecnica maanche sensibili cultori della bellezza della natura con cui stabilire un rapporto di reciproca empatia. Che cosa succede oggi a un fotografo che voglia riprendere il discorso e riannodare il rapporto che lega l’uomo alla natura? Tali e tanto profondi sono i cambiamenti tecnologici, estetici, umanistici di cui tener conto che è indispensabile tracciare un percorso completamente nuovo. Questa profonda consapevolezza sta alla base del lavoro di Franco Donaggio che nel suo recentissimo Prima del Giorno lancia una sfida affascinante, quella di ritrovare il senso della meraviglia che per abitudine, stanchezza, disincanto, sembriamo aver perso. Dopo aver sviluppato una personalissima poetica piegando la fotografia agli intenti di una sua ricerca di gusto surreale – come emerge in diversi lavori, da Metaritratti a Reflections – Donaggio si muove con acume all’interno dell’universo virtuale creato dall’immagine digitale quando sa essere guidata da un progetto di grande forza espressiva. Se in Urbis aveva già indagato nell’universo urbano trasfigurandolo in una visione dove si sentivano gli echi architettonici del Costruttivismo e del Razionalismo, in Prima del Giorno compie un ulteriore passo in avanti arrivando a creare lui stesso le strutture di un paesaggio urbano che sembra nascere dalla fantasia come dal desiderio. Tutto qui assume una grandiosità affascinante: enormi colonne si slanciano verso un cielo che sembrano sostenere, infinite pareti creano quinte che definiscono gli spazi, piani scoscesi stabiliscono nuovi imprevedibili equilibri in un universo che sembra sospeso in un vuoto allusivo. Nulla di quanto vediamo è reale eppure la nostra sensazione è che lo sia: ci ritroviamo come quegli anonimi spettatori ottocenteschi posti di fronte allo spettacolo e al fragore delle cascate che forse mandavano fino a loro minuscoli spruzzi d’acqua portati dal vento. Noi, uomini di due secoli dopo, per provare le stesse sensazioni dobbiamo confrontarci con un mondo totalmente diverso fatto di costruzioni geometriche di cui cogliamo la grandezza ma non precisamente il senso, di nuvole intrappolate da solidi a forma di rete, di luci che scendono dall’alto come provenissero da fari nascosti nella profondità di un cielo buio e lontano, di scale che salgono, scendono, si inseguono con una logica imperscrutabile. L’uso di un bianconero dotato di una straordinaria pulizia formale e un attento ricorso alle tecniche digitali accentuano il carattere misterioso di questi luoghi che si caricano così di una fortissima valenza teatrale. Franco Donaggio ci guida all’interno di un mondo che ci ricorda quello della fantascienza ma nello stesso tempo sembra suggerirci che quanto vediamo non dobbiamo cercarlo in altre lontane realtà. Si tratta, infatti, di guardare a quanto ci circonda con altri occhi: quelle passerelle sospese all’interno di una sorta di cupola, quelle piazze disegnate come labirinti, quelle lastre di pietra che si intersecano disegnando strani confini, quelle voragini verso cui si indirizza la nostra curiosità sono il nostro mondo. Sono la proiezione dei pensieri, delle speranze, dei timori, dei sogni di quei piccoli uomini che si muovono in quegli spazi e li osservano, come sempre siamo portati a fare, un po’ spaventati e un po’ affascinati.