IL FASCINO DEL MITO  –  by Roberto Mutti


Basta trovare un luogo lontano dalla gente, dalle luci, dai rumori e fissare a lungo e in silenzio il cielo notturno per essere invasi da una strana sensazione che accosta al senso di inquietudine il fascino del mistero. E’ un modo intelligente di collegarci ai nostri progenitori più acuti che usavano l’audacia del pensiero per indagare fra le pieghe della realtà alla ricerca della sua essenza più autentica. L’intima natura delle cose ama nascondersi scriveva Eraclito che i contemporanei chiamavano skoteinòs, l’oscuro, perché era già consapevole che la conoscenza è un lungo processo dove ragione e mistero si intrecciano in un cammino tortuoso e proprio per questo ricco di fascino. Fa una certa impressione sapere che quelle parole, scritte nel VI secolo a.C. e provenienti da una società economicamente e socialmente così semplice come quella dell’isola greca di Samo, sono ancora adesso condivisibili. Abituati come siamo a porre al centro del nostro percorso cognitivo non già la nobile razionalità ma una sua versione più semplicistica, cioè la ragionevolezza, abbiamo affidato al mondo dell’arte il compito di guidarci alla scoperta di ciò che maggiormente ci affascina, che sia il cielo notturno che ci sovrasta o l’intrico dei pensieri che ci attraversano. Gli antichi di fronte a tutto ciò ricorrevano al mito, un tipo di narrazione che dietro l’apparenza del racconto fantastico propone un nucleo fondamentale di verità: al lettore più attento viene così lanciata la sfida a indagare fra le molte suggestioni per arrivare a cogliere il cardine centrale del messaggio. Così la Sfinge con cui si confronta Edipo è il simbolo dell’enigma che bisogna saper sciogliere, il filo di Arianna quello dell’intelligenza capace di sconfiggere la brutalità mentre la sfida di Orfeo esalta la sublime bellezza dell’arte indicandola come unica in grado di confrontarsi con la morte fino – quasi – a sconfiggerla. Per noi contemporanei il compito un tempo affidato alla parola è ora delegato in larga misura alle immagini e ai pochi autori che le sanno usare con perizia e maestria. Gli spazi di Morfeo, il più recente lavoro di Franco Donaggio, possiede tutti i requisiti per essere definito un mito realizzato in forma fotografica e non solo perché già nel titolo evoca una delle divinità più affascinanti dell’antica cultura greca che aveva la singolare capacità di assumere le forme di persone, oggetti, paesaggi e perfino sensazioni sognati dagli uomini. Così si stabiliva un rapporto stretto e tenace fra mito e sogno, come si poteva intuire dal fatto che Morfeo era uno dei figli di Ipno e che per suscitare le immagini nel sonno usava sfiorare le palpebre dei dormienti con petali di papaveri. E’ esattamente questa la dimensione in cui Donaggio ci accompagna chiedendoci di lasciarci trasportare dalle sensazioni e dalla meraviglia fino a renderci consapevoli dello stretto rapporto che lega la realtà che chiamiamo reale a quella dell’immaginazione. Lo fa da subito con un’immagine di grande potenza dove si mescolano la solennità di una nave la cui prua fende il mare creando imponenti onde schiumose e il vigore della donna che la governa afferrando saldamente lunghe corregge di cuoio. Presto si comprenderà che non a caso le fiancate della nave si ergono come muri di cemento: l’architettura, soprattutto quella più audace e come tale capace di ogni sfida, non è soltanto l’ambiente in cui tutto è collocato ma è una vera e propria protagonista di un mondo dove la morbidezza sensuale di un magnifico corpo femminile si confronta con le linee acute degli edifici, si fonde con le sequenze di finestre che sembrano abbracciarlo, svetta in uno slancio che si innalza verso il cielo come volesse sfidarlo. Poi, improvvisamente, la donna emerge in uno spazio liquido che si coagula attorno a lei ed è inevitabile pensare a un altro Morpheus, il protagonista di Matrix di Lana e Andy Wachowski che forse non è un film di fantascienza ma una finestra aperta sul possibile. Proprio partendo da questo punto il viaggio si articola, la figura femminile si libra nell’aria, si scontra con il fuoco, si abbandona su un sedile, si confronta con la gigantesca sagoma della luna dove forse, da qualche parte, come voleva Ludovico Ariosto, c’è uno spazio in cui vengono custodite le ampolle contenenti il senno degli innamorati.